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Villa Mimbelli ospitò la scuola-convitto per i figli dei postelegrafonici: una storia dimenticata

E’ un pezzo di storia quasi dimenticato. Villa Mimbelli, per circa 2 anni, dal 1938 al 1940, è stata una scuola-convitto per i figli dei postelegrafonici. L’ha riscoperta Emilia Baratta della Cooperativa Agave, e qui riportiamo la sua interessante ricerca, nonchè la sua intervista a uno degli studenti dell’epoca, il signor Francesco Bardelli.

Villa Mimbelli o Villa XVIII Novembre: elegante e civettuola con l’ombroso suo parco

Non è noto ai molti che Villa Mimbelli, attuale sede del Museo Civico Giovanni Fattori, nel 1938 e per circa due anni è stata una scuola-convitto per i figli dei postelegrafonici.
L’ultimo erede dei Mimbelli, l’Ammiraglio Francesco Maria (1903-1978), nipote di Francesco Mimbelli, commerciante di grano, nel 1936 vendette l’immobile di sua proprietà all’Azienda Autonoma Poste e Telegrafi.
Negli anni Trenta, in pieno clima fascista, in molte località italiane, situate sul mare o in montagna, sorsero diverse scuole-convitto.
L’obiettivo oltre a quello di chiara propaganda, era di formare il carattere dei giovani aiutando alcune categorie di lavoratori che avevano qualche difficoltà nel mantenere gli studi ai propri figli. Accompagnare quindi i ragazzi nel percorso di studio e avere nel caso dei figli dei lavoratori, per legge, precedenza assoluta nell’assunzione del personale.
Presso la costa tirrenica tra Livorno e Pisa nel 1933 fu inaugurata la scuola-convitto Villa Rosa Maltoni Mussolini e a cavallo tra dicembre 1937 e gennaio 1938 fu inaugurata Villa XVIII novembre – ex Villa Mimbelli, in via San Jacopo in Acquaviva a Livorno, entrambe le strutture erano riservate ai figli dei postelegrafonici.

Ci fu grande fermento e curiosità nel quartiere San Jacopo il giorno dell’inaugurazione. A tal proposito è interessante citare l’articolo titolato “La visita del pubblico all’istituto di villa Rosa in San Jacopo in Acquaviva”, comparso su “Il Telegrafo” di domenica 2 gennaio 1938.
L’articolo illustra dettagliatamente il giorno dell’inaugurazione e recita così:

“(…) Nel pomeriggio di venerdì, nonostante che fosse giornata di occupazioni per tutti, molti furono i visitatori, ma questi sono stati ieri sera numerosissimi, di ogni ceto, dal popolano al signore. La popolazione di borgo san Jacopo, che si è comportata con discrezione ammirabile, si è mostrata colpita da tanta bellezza, e abbassava il tono della voce ammirando gli ambienti, l’attrezzatura, i superbi lampadari, come temesse di disturbare qualcuno: con il suo naturale intuito, ha sentito l’importanza del luogo, il tratto cortese dell’invito alla visita e si è allontanato dopo aver apposto la firma nell’albo, molto contento di lasciare là con quel nome un attestato della sua ammirazione (…) A sera con tutti gli ambienti illuminati, l’istituto villa rosa di Livorno appariva oltremodo accogliente: una creazione sorta su per opera di magia: così doveva apparire a chi da qualche tempo non passava più per sant’Jacopo in Acquaviva. La villa, con tutte le finestre illuminate al piano delle aule scolastiche di cui i visitatori hanno ammirato l’ammobiliamento elegante e razionale, pareva un castello di sogno. La gente entrava nel nuovo edificio soffermandosi nei saloni di ricevimento e da pranzo, saliva per la magnifica scala in legno, costruzione di maestranze livornesi , e non si staccava dall’ammirare le camerate ed i servizi annessi, l’ingegnoso adattamento dei locali in cui le travature antiche sono divenute ornamento di ottimo gusto; meravigliata di trovare, oltre che imponenza, quel carattere di intimità familiare proprio delle case e non dei convitti(…)”.

L’articolo fa riferimento non solo a Villa Mimbelli, ma anche all’edificio attiguo, gli ex granai, struttura che al tempo fu decisamente riadattata a refettorio e dormitorio destinato nei primi mesi di apertura solo alle femmine e poco dopo ai maschi.
Si intuisce che la struttura, cambiò denominazione e da “Villa Rosa” diventò “Villa XVIII Novembre”.
Per tornare con la mente a quegli anni e rivivere il clima festoso ma anche sobrio e severo che i ragazzi di quell’epoca respiravano, suggerisco di affidarsi alle parole del signor Francesco Bardelli classe 1925 di Varese, che all’età di 14 anni frequentò la scuola–convitto di Livorno.

Premessa:
Ho incontrato Francesco Bardelli una domenica pomeriggio di qualche anno fa, al Museo Civico Giovanni Fattori. Da normale visitatore, osservava le opere esposte e commosso, parlava con sua figlia Giovanna, dicendo che dopo tanto tempo era emozionante tornare in un luogo che molto ha inciso nei suoi ricordi di ragazzo.
Timidamente mi sono introdotta nella loro conversazione e con grande entusiasmo e curiosità ho ascoltato con attenzione ogni sua parola, un racconto vivido, unico, prezioso, la memoria storica di chi molti anni fa, ha frequentato questi luoghi di remota memoria e può darcene testimonianza.

Ricordi di Francesco Bardelli
Il mio papà era un porta lettere di Gazzada, un piccolo paese alle porte di Varese, città dove sono nato. Nel 1926 venne creato l’istituto di previdenza dei postelegrafonici, il quale investiva i proventi nei vari istituti: Villa rosa Maltoni Mussolini al Calambrone, Villa Marina XXVIII ottobre a Pesaro, Villa Faro a Messina. (nel 1935 circa, venne istituito un fondo in denaro, da destinare ai dipendenti dell’Azienza Statale Poste e Telegrafi, fondo di cui avrebbero beneficiato coloro che avevano intenzione di fare proseguire gli studi ai propri figli). Era una grande possibilità, spesso le famiglie non potevano permettersi col solo stipendio del capofamiglia, di poter fare studiare i propri figli, perciò il loro destino era quello di trovarsi immediatamente un lavoro spesso umile e molto faticoso (…).
Il mio primo viaggio in treno fu nel 1936 all’età di 11 anni per raggiungere insieme a mio padre che mi accompagnava, l’Istituto Rosa Maltoni di Calabrone (…).
Dal momento che quella di Calambrone era una scuola era privata, alla fine del biennio per proseguire presso una scuola pubblica una commissione esaminatrice ci fece fare un esame di accesso, ricordo che alcuni dei miei compagni non lo superò, non era affatto semplice.
All’età di 14 anni proseguii il mio percorso a Livorno nell’istituto denominato “Villa XVIII Novembre”, perché frequentassi la scuola pubblica. La struttura era una magnifica villa signorile appartenuta fino a pochi anni prima alla famiglia Mimbelli, il cui capostipite era un ricco mercante di granaglie, Francesco Mimbelli. Inizialmente destinata solo alle femmine, nel 1938 diventò colonia maschile mentre quella di Calambrone da mista diventò femminile. Le colonie di Calambrone e di Livorno sorsero per volere di Benito Mussolini.
Presso il convitto di Livorno, ho frequentato altri due anni di Istituto tecnico inferiore presso la scuola pubblica che si trovava nei pressi della sinagoga di Livorno, e lì sono rimasto fino al 1940.
Villa Mimbelli, oggi sede della Pinacoteca civica, è rimasta, nei miei ricordi di ragazzo, pressoché identica: l’ingresso con la galleria rinascimentale, le ricche decorazioni a stucco, la sala da biliardo, le camere in stile rococò veneziano e ricordo che c’era un grande baldacchino tutto decorato con tessuti di broccato. In due anni di permanenza, solo una volta ho potuto accedere a queste stanze che oggi fanno parte del percorso museale, a noi ragazzi era assolutamente vietato l’ingresso.
Il secondo e ultimo piano della villa era riservato a noi studenti per fare i compiti, una sorta di dopo scuola dove eravamo seguiti da un istitutore.
Il corpo docenti di Livorno nell’Istituto tecnico inferiore era un corpo “coi baffi”, tutti preparatissimi e competenti.
Ci insegnavano Storia, geografia e italiano. La professoressa di italiano, quando facevamo un tema voleva sapere il perché e il percome tu avevi scritto quella frase, era molto pignola, come tutti gli altri professori del resto.
Ti faceva ragionare, non si accontentava, dovevi andare all’origine e spiegare ben bene cosa volevi dire, non limitarti ad una frase buttata lì, quello che avevi scritto doveva avere una sua generazione ti facevano ragionare, non si accontentavano del “come”.
Si dormiva negli ex granai della Villa, ristrutturati, quelli che il signor Mimbelli, utilizzava come deposito di grano e come scuderia. Erano più o meno come sono adesso, appena si entrava c’era la direzione e la segreteria, mentre infondo alla struttura c’era l’infermeria e il refettorio.
I mobili del refettorio erano in legno massiccio, atti a durare un’eternità e ricordo che si mangiava molto bene. Al piano superiore c’erano le camerate che ospitavano ognuna circa 30 ragazzi, c’era disciplina e si andava a letto alle 21-21,30 al massimo.
Il sabato, presso la “serra” in fondo al parco, avevano allestito un piccolo cinema che era attivo tutto l’anno; la sala era lunga e c’erano delle grandi vetrate che venivano coperte con delle tende. Sempre in fondo al grande parco, fu costruito un bel teatro all’aperto, ancora oggi visibile. In questo teatro all’aperto in una serata estiva venne presentata un’opera di Mascagni alla presenza del compositore forse si trattava di Cavalleria Rusticana o Lodoletta. C’erano anche delle casette in stile fiorentino, oggi fatiscenti, che ospitavano tra le altre, la scuola di telegrafia, quella di ballo classico e ballo moderno quest’ultimo facoltativo ed aveva come insegnante un uomo.
Gli educatori erano tutti maschi e il direttore forse nato in Inghilterra, era severo, dava punizioni educative, ghigno duro quando sbagliavamo. Ricordo che una sera, durante la proiezione di un film si era inceppata la pellicola, un compagno per questo, fischiò in segno di protesta, come si era soliti fare nelle sale cinematografiche in città. Il direttore accese improvvisamente la luce dicendo: “chi ha fischiato? Desidero che chi ha fischiato esca e mi aspetti fuori dalla direzione”. Tenendo conto che erano le nove di sera, il ragazzo uscì e lo aspettò senza muoversi, terrorizzato per la punizione che il direttore gli avrebbe inflitto. Il direttore si presentò a mezzanotte dicendogli: “vai a dormire! e che ti serva di lezione per la prossima volta, una persona educata non si comporta così!”.
Di fianco alla villa e accorpata alla vecchia casa del fattore, c’era una piccola cappella che adesso è una biblioteca specializzata in storia dell’arte dell’Ottocento. Dentro la cappella, la domenica mattina, un frate domenicano con la tonaca color avorio veniva a celebrare la messa e per noi ragazzi era obbligatorio andarci.
Ogni giorno, al mattino si usciva tutti insieme, percorrevamo via della Bassata, costeggiavamo i cantieri Odero Terni Orlando e il fosso reale per arrivare all’istituto tecnico posto nelle vicinanze della Sinagoga.
Alla fine dell’anno scolastico che si concluse senza l’esame previsto perché si era ormai in stato di guerra, i dirigenti ritennero preferibile abbandonare Livorno (possibile obiettivo militare) per destinarci a Pesaro.
A Pesaro iniziammo a frequentare il primo anno dell’istituto tecnico per geometri. Rimasi a Pesaro fintanto che con l’inasprirsi della guerra i miei familiari preferirono richiamarmi a casa e completai gli studi presso l’istituto tecnico per geometri a Legnano, ove mi diplomai nel settembre 1944.

Emilia Baratta
(Cooperativa Agave)

Bibliografia

Nel decennale dell’istituto di previdenza dei postelegrafonici 1926-V-’36-XV, Società editrice Novissima, [Roma 1936]
www.treccani.it
Francesca Canuto, Paesaggio, parchi e giardini nella storia di Livorno, Debatte 2007
museofattori.livorno.it

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